Atto II

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Le rose bianche di Al Walaja

 

 

A volte, la guerra è un odore che si sente nell’aria.

Alle 7.45 del mattino, il 5 giugno del 1967, Abu Nidal ha 20 anni e nessuna idea di quanto sta per accadere. Di certo, non può sapere che si troverà a parlarne 50 anni dopo.

Macchine bruciate. Cadaveri. Armi. Neanche lui sa perché, ma ricorda chiaramente un pacco di biscotti abbandonato a terra. E’ sceso alla solita fermata, a Gerusalemme. Non è stato un lungo viaggio, il villaggio dista pochi chilometri, ma si è svegliato all’alba: c’è da riprendere il lavoro nell’hotel. Si è sposato da 2 mesi, e dio solo sa la fatica che ha fatto per mettere insieme i soldi. Non vuole che alla moglie manchi qualcosa, è così giovane… e poi hanno dei progetti, vogliono dei bambini.

Cammina svelto, Abu Nidal. Nell’aria sente l’odore della guerra. Ma in quel momento c’è ancora spazio per sognare una vita felice, una vita normale. O almeno, così gli sembra. Finirà presto, si dice. In fondo, pensa che ciò che sta accadendo della guerra abbia davvero solo l’odore. Perché a guardarsi intorno, somiglia più a una resa. Ad una fuga.

Strano. Alla radio ricorda d’aver sentito altro. Ricorda la propaganda dei leader arabi, l’incitamento alla resistenza. “Entrate in sciopero della fame!”, ha esortato qualcuno. Qui, però, si vedono solo povere cose abbandonate. Lasciate indietro nella fuga concitata di un esercito che non ci ha voluti, pensa. L’armata giordana, che ai palestinesi ha requisito le armi, che di palestinesi nelle sue fila non ne ha accettati. Hanno detto che Moshe Dayan vuole la terra di Al Walaja, che quella strappata nel 1948 non gli basta. Ma non è possibile, ce n’è rimasta così poca… e poi – pensa Abu Nidal – è Ministro della Difesa solo da un giorno.

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Mentre prepara un the bollente getta uno sguardo alle sue colline. “E’ come avere un figlio che improvvisamente muore”, sospira. Verde, qui, è il giardino che ha costruito intorno alla casa, in cui un muro di fiori e piante ne nasconde un altro, di ferro e cemento. Come a mettere una distanza con una geografia ormai straniera. Con un paesaggio che non si riconosce più. Diventato altro, violato.

Qui la Linea verde è segnata da due colli che, correndo a valle, s’incontrano. Ma serve un dito esperto ad indicarla perché due occhi estranei riescano davvero a vederla.

Al Walaja, Territori Palestinesi Occupati, distretto di Betlemme. Dei 18 chilometri quadrati che componevano il villaggio nel 1948, oggi ai palestinesi ne restano solo 2, anch’essi controllati da Israele. Qui, neanche i tetti possono respirare: le 30 case che rimangono, ancorate alla terra con ostinazione, condividono lo stesso destino: avviso di demolizione.

Distruggere, evacuare, fare spazio. Questo è l’ordine.

Al Walaja, la terra assediata. Ad ovest, Israele e il suo cemento. Il suo muro, ogni giorno un po’ più lungo. Ad est, gli Altri. Piccole case bianche, tetti rossi a spiovente. Le colonie di Gilo e Har Gilo, 42.000 Altri che da quel cemento verranno avvolti.

E’ per ragioni di sicurezza, dicono”. Il cucchiaino gira nella tazza. “Ma è solo per toglierci terra. Ancora e ancora”.

Abu Nidal fatica a credere che 50 anni possano essere passati così. Che la storia possa ripetersi come in una ruota che gira, crudele. Che ancora non si riesca a respirare.

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Cantano. Gioiscono. Festeggiano. Quand’è che sono diventati così? Abu Nidal si chiede come possano 6 giorni cambiare le persone. Ebrei, israeliani, civili. Fino alla settimana prima non ricorda di essere stato umiliato in quel modo. Hanno vinto la guerra, d’accordo. Ma poi, contro chi? Cammina svelto, Abu Nidal. L’hotel è stato occupato, il piano terra ora è un deposito di armi. Ricorda i racconti dei suoi genitori, della catastrofe del ’48. E’ meglio tornare al villaggio, pensa, e anche in fretta. Forse, si dice, potremmo riavere quanto ci è stato tolto 19 anni fa. Bisogna tornare alle nostre case per restare. Non lasciarle per nessuna ragione al mondo. Non permettere che quella catastrofe accada di nuovo.

Perché li ha visti bene gli autobus israeliani, lì fermi in fila alla Porta di Damasco. “Trasporto gratuito”, c’è scritto sopra. Portano le famiglie palestinesi a Jerico, e da lì in Giordania. A breve, pensa, i campi profughi del ’48 vedranno nuovi arrivi.

Non è possibile che stia accadendo ancora, si dice.

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A volte, la guerra è una ruota che gira riportandoti sempre al punto di partenza. Che dal 1948 passa per il ’67, e arriva fino ad oggi.

Chi lasciò le sue case e i suoi villaggi dopo la guerra del 1967 non poté fare mai più ritorno. Come chi li aveva preceduti, nel 1948.

Abu Nidal fu tra i pochi che riuscirono a restare. Sei giorni dopo l’inizio della guerra tornò ad Al Walaja. O almeno, a ciò che ne restava.

Pensavo che ci avrebbero fatti tornare alla nostra terra, all’area del villaggio che ci avevano strappato nel ’48.  Invece ci ritrovammo profughi tra i profughi, confinati in meno della metà di ciò che restava. Israele tenne la terra presa durante la Nakba, e ne occupò ancora. Poi iniziò la costruzione delle colonie di Gilo e Har Gilo. Infine, il muro. Quello lì... lo vedete?”. Punta il dito. Ma non occorre, tanto è vicino al suo giardino. Il rumore delle ruspe già infrange la quiete da tempo.

Poi gli Accordi di Oslo. Anni Novanta, anni di promesse tradite.

La divisione dei Territori Occupati in aree A, B, C. La zona agricola di Al Walaja finisce sotto controllo di Israele e delle sue colonie. “Ragioni di sicurezza”, dice il governo. Quella abitata, invece, viene lasciata nel limbo dell’area B, dove il futuro resta sospeso nell’attesa di un permesso che non arriverà mai.

Credo che avremmo il diritto di odiare. Eppure non lo facciamo. Io vorrei solo tornare al vecchio forno di mia madre, nell’area del villaggio che ci è stata strappata. Quel giorno, per me, sarà la pace”. Non sorride mai, Abu Nidal.

Il the è rimasto nelle tazze, ormai si è raffreddato. La ruspa si è fermata, lasciando spazio al ronzio delle api.

Possiamo farci una foto adesso? Qui… qui. Vicino alla pianta di rose bianche. Significano ‘speranza’, lo sapevate?”.

Mappa di Stefano Rea